“Morti bianche”: così chiamano le morti sul lavoro. Operai la cui vita viene sacrificata perché non vengono rispettate le norme di sicurezza. Per risparmiare, certi padroni e manager non fanno i necessari lavori di manutenzione. Magari perché la fabbrica è in dismissione, non ritengono valga la pena mettere a norma un impianto. Anche se si tratta di pochi soldi. Tanto poco vale per loro la vita di un uomo. Per risparmiare, espongono consapevolmente gli operai al rischio di perdere la vita.
Come è accaduto all’ acciaieria Thyssen Krupp di Torino nella notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007. Investiti da una spaventosa fiammata, sono morti sette operai. Uno è morto subito, in fabbrica, un altro poco dopo, in ospedale, e i suoi compagni uno dopo l’altro, il corpo devastato dalle ustioni. Gli ultimi a morire sono stati due ragazzi di 26 anni.
Uno dei tubi dell’acciaieria aveva avuto una perdita, ne era uscito dell’olio idraulico. Sulla chiazza d’olio era finita una scintilla che aveva dato origine all’incendio. Gli operai accorsi avevano trovato gli estintori vuoti, mentre i telefoni interni della fabbrica erano fuori uso. Così per chiedere soccorso avevano dovuto correre sulle biciclette.
Dopo che ne era stata decisa la chiusura, lo stabilimento era stato sfruttato al massimo dal colosso tedesco Thyssen Krupp, che aveva dimezzato il numero degli operai, passati da 400 a 200, riducendo drasticamente le squadre antincendio.
A Radio Popolare avevano trasmesso la cronaca di un corteo di protesta, all’indomani dell’incendio. “Lavorare è come andare in guerra…. Quella notte noi non siamo andati a lavorare. Siamo andati a morire…” aveva detto Antonio Boccuzzi, l’unico sopravvissuto al rogo. Lui e i suoi colleghi erano i superstiti di una fabbrica in dismissione, costretti ad attenderne la chiusura definitiva perché non avevano possibilità di scelta o di ricollocamento.
“Dimenticati e traditi” aveva aggiunto un altro. “Ci sentivamo così anche prima della strage. Dopo la sconfitta subita a Mirafiori nel 1980, gli operai sono stati dimenticati.” L’erosione continua dei salari ha reso le condizioni di vita sempre più difficili, e più pressante il ricatto di padroni e manager, avevano detto alcuni durante il funerale delle vittime. Gli uomini politici e i grandi capi sindacali che li avevano spinti a lottare, una volta ottenuta una bella carica a Roma, si erano disinteressati di loro. “Ci hanno traditi”, avevano ripetuto altri.
È una guerra che non finisce mai: le sue vittime innocenti sono tante e quasi mai i loro assassini vengono puniti. Oppure devono scontare pene irrisorie. Come se la vita di un uomo contasse poco o niente.
Oggi, a distanza di dieci anni dalla tragedia e di oltre un anno dalla sentenza definitiva che ha ritenuto colpevoli i vertici della Thyssen Krupp, i due manager condannati lavorano ancora in un’acciaieria del Gruppo, perché la giustizia in Germania non li ha ancora arrestati, nonostante le pressioni delle autorità italiane.
Pensando a quel padre che gridava: “Ridatemi mio figlio!” e a tutti gli altri, provo un senso di impotenza. Di colpa e di vergogna. Mi viene in mente quel quadro di Munch, L’urlo. Così mi sento. Con quell’urlo strozzato in gola.