Giovanni Raboni e l’eternità

13 settembre 2012. Sono andata alla Sala Buzzati del Corriere della Sera per l’Omaggio a Giovanni Raboni. Un cielo in movimento, grandi nuvole, un’aria limpida. Ho pensato alla luce fissa, inesorabile dell’estate. Amo questa atmosfera quasi autunnale leggera e soothing.

Ero triste, e pregavo che qualcuno mi confortasse: avevo da poco perso il mio gatto e non riuscivo a rassegnarmi. Lo vedevo dappertutto, lo sognavo.  In uno degli ultimi sogni lo tenevo in braccio e lui aveva appoggiato la testolina sul mio cuore e svegliandomi avevo pensato: “Lì resterà per sempre. ”

Nelle parole di Giovanni Raboni, un poeta che mi è caro, ho trovato il conforto che cercavo.

Diventando vecchio, guardava più dentro sé stesso che fuori. Credeva nella comunione dei vivi e dei morti. I morti continuano a vivere accanto a noi. Perché la vita non è qualcosa che comincia e finisce.

 

Così scrive nel suo Autoritratto:

 

Uno dei pochi pilastri della mia fede – ammesso che di fede si possa parlare – è l’idea della comunione dei vivi con i morti, che non vuole dire che io pensi che c’è un oltrevita nel quale si incontrano i morti. Penso che i morti ci siano, cioè penso che si continui a vivere anche con le persone che non ci sono più, che continuino a fare parte della nostra vita… Attraverso la memoria, attraverso la continuità dei pensieri e delle emozioni…

 

Un altro punto molto ricco di significato:

 

Non ho grandi letture scientifiche, ma mi ha sempre colpito, in quelle poche cose che ho letto di fisica, l’idea che l’irreversibilità del tempo non possa essere dimostrata. Viviamo rispettando questa realtà, però la fisica non è in grado di dimostrare che il tempo sia irreversibile. E questo mi ha sempre molto colpito: un po’ terrorizzato, un po’ consolato. Siamo sempre in bilico. Non è detto che non si possa tornare indietro, a visitare il passato.

 

E più avanti:

 

… si è fatta sempre più forte in me l’idea della comunione dei vivi e dei morti… Cioè non faccio più molte distinzione tra vivi e morti, non soltanto nelle persone della famiglia ma nelle persone care, negli amici che a un certo punto scompaiono. Io non li sento, devo dire la verità, più lontani di quando erano vivi, e quindi mi si è, appunto, fatta sempre più essenziale, sempre più cara l’idea che esiste non so se un aldilà o un aldiquaà o un dentro-di-noi in cui i morti continuano a vivere con noi.”

….

Ho sempre pensato che la vita non sia qualcosa in cui si entra e si esce, qualcosa che si attraversa come uno spazio finito, ma come qualcosa in cui si sta indefinitamente.

Questo non implica, secondo me, per forza di cosa, un’idea di trascendenza:semplicemente la vita è questa cosa, la cosa in cui si sta, in cui non si può non continuare a stare anche quando teoricamente la vita finisce. Questa è la mia – se volete – la mia fede. Non so se sia una fede nel senso plausibile della parola. È il mio modo di stare dentro questa realtà che secondo me non può chiamarsi in altro modo che la vita. Una volta in una poesia ho scritto che “cerco” a volte “di immaginare la felicità dei morti” e penso che anche per i morti la felicità sia la vita.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *